Ritratto - Il calcio piange il suo Re: Pelé, il Fuoriclasse Perfetto

Basterebbe una sola parola per descrivere Pelé. La perfezione.
Eppure si stanno versando in tutto il mondo fiumi di inchiostro. Perché Pelé è stato tutto. E il calcio, dopo di lui, non è stato più lo stesso.
Sul campo non aveva punti deboli: destro, sinistro, colpo di testa, velocità, tecnica, regia, genialità, impareggiabile uomo assist e stupefacente cannoniere (757 le reti ufficiali, 1.281 contando le amichevoli).
Ha vinto 3 Mondiali, anche se nel 1962, dopo aver giocato divinamente all'esordio contro il Messico, è stato costretto a dare forfait per infortunio, e il Brasile vinse lo stesso, trascinato da Mané Garrincha – con lui e Pelé in coppia il Brasile non perse mai una partita tra il 1958 e il 1966. Negli altri 2 Mondiali, in compenso, è stato il migliore: nel 1958 in Svezia, a 17 anni e rotti, timbrò 6 gol nelle ultime 3 partite, 3 in semifinale e 2 in finale, un ghepardo che fiutava la preda e non lasciava scampo; dodici anni dopo in Messico, più maturo e consapevole, divenne l'uomo squadra per eccellenza, l'architetto del Brasile delle meraviglie.
L'ho conosciuto grazie ai racconti e alle testimonianze.
L'ho rivisto in diverse partite grazie ai moderni mezzi informatici. E nessuno mi ha impressionato come lui.
Se nel calcio c'è stato un Michael Jordan o un Eddy Merckx – cannibali capaci nel loro periodo migliore di dominare il proprio sport lasciando agli altri le briciole – questo è stato Pelé. Tra i 18 e i 25 anni ha di fatto azzerato qualsiasi concorrenza, a livello nazionale e internazionale. Non solo vincendo tutto, ma facendolo da protagonista assoluto, con una continuità prestazionale disarmante, non sbagliando mai una finale o un momento decisivo.
Ma al di là dei paragoni impossibili tra epoche diverse, di certo Pelé è diventato il punto di riferimento obbligato per chiunque sia venuto dopo. Cruijff e Zico furono ribattezzati “Pelé bianchi”. Il dualismo con Maradona è ancora oggi un grande classico. Quando Ronaldo il Fenomeno mosse i primi passi, molti si chiesero se fosse nato il nuovo Pelé. Con Messi e Cristiano Ronaldo il parallelismo è sempre stata una costante, anche solo per i record statistici e il numero di gol. E quando Mbappé ha vinto il Mondiale a 19 anni in Russia nel 2018, la mente è corsa a Pelé e ai suoi 17 anni in Svezia.
A proposito di Svezia. Prima di quel trionfo il calcio brasiliano considerava i neri e i mulatti un “surplus tecnico”, in barba alla Lei Áurea, con la quale nel 1888 Dona Isabel, la principessa figlia dell'imperatore del Brasile Pietro II, aveva abolito la schiavitù: tra gli anni '20 e '30 del '900 il presidente del Brasile Epitácio Pessoa aveva vietato la convocazione in nazionale agli atleti neri e mulatti; il centromediano Fausto dos Santos lottava per far valere i propri diritti; il famoso bomber Arthur Friedenreich, padre tedesco e madre nera, era costretto a lisciarsi i capelli crespi tipici dei mulatti; mentre Carlos Alberto, terzino della Fluminense, doveva incipriarsi per sembrare bianco. E quando il Brasile perse in casa contro l'Uruguay il Mondiale del 1950 (il famigerato Maracanaço) sul banco degli imputati finirono soprattutto i giocatori di colore: il terzino Bigode e il portiere Barbosa.
La nazionale di Svezia '58 segnò il riscatto. Sociale, prima ancora che sportivo. I neri e i mulatti divennero da reietti a re, da minoranza a maggioranza - 6 su 11 nella finale contro i padroni di casa - e diffusero nel mondo il calcio della loro gente: un calcio armonico, danzato, irridente, sinuoso, specchio del samba e della bossa nova; un calcio nato dai dribbling e dai movimenti di bacino degli schiavi di colore per sfuggire alle angherie dei padroni bianchi. Era il futebol bailado, e divenne il marchio del Brasile, riconosciuto e riconoscibile ancora oggi, un modo di sentire e di essere, non solo di giocare. E Pelé, alla guida di una generazione di fenomeni, trasformò il Brasile da eterna perdente, da bella incompiuta, a patria del gioco, la nazionale più famosa, quella che in ogni Mondiale è sempre la più attesa, la più temuta, la più ammirata.
Fuori dal campo Pelé non ha mai voluto essere qualcosa di diverso da un semplice sportivo. Non è mai salito sulle barricate come Muhammad Alì – l'altro grande sportivo di colore degli anni '60 – per urlare al mondo le condizioni di inferiorità delle persone di colore. Non si è mai schierato contro la dittatura militare brasiliana e ha sempre preferito lasciar parlare l'immagine di ragazzo nero nato povero e arrivato alla cima del mondo solo grazie a un pallone.
Eppure, nonostante questo, è diventato un simbolo del calcio oltre il campo. È stato il primo atleta di colore a comparire sulle copertine di rotocalchi e riviste appannaggio dei bianchi, e negli anni '60 era il nome più conosciuto al mondo dopo la Coca Cola. È stato ministro dello sport in Brasile, uomo immagine dell'ONU, dell'UNICEF, della FAO. Ha visitato circa 90 Paesi, è stato ricevuto da 70 capi di Stato e 3 Papi. Ha unito fazioni diverse, gente diversa, politici diversi. Come il repubblicano Ronald Reagan («Buongiorno, sono Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti. Lei non si presenti neppure. Tutto il mondo sa chi è Pelé») e il democratico Barack Obama («Pelé è stato un mio idolo di gioventù, era un modello, un punto di riferimento per la gente di colore»).
Molti argentini lo considerano il più grande, nonostante tra le loro fila abbiano avuto Di Stéfano, Maradona, Messi. Per Andy Wahrol «Pelé ha contraddetto la mia teoria, e invece che 15 minuti di celebrità avrà 15 secoli». Per Johan Cruijff «è stato il solo calciatore a superare i confini della logica». Per Michel Platini è stato «come veder giocare Dio». Per Eduardo Galeano, sopraffina penna uruguaiana, «chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare ha ricevuto un regalo di rara bellezza: momenti a tal punto degni dell’immortalità, che ci consentono di credere che l’immortalità esiste». È Pelé. È la perfezione. È il Calcio.

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