«Non giudicate Gabriele», l'intervista al fratello della vittima di Chiavazza

Quante volte ci fermiamo alle apparenze, giudicando le persone e le situazioni dalla superficie, senza il desiderio e la voglia di andare oltre, di ascoltare, comprendere, tendere una mano a chi è in difficoltà, ma non ha la forza o il coraggio di chiedere aiuto. Giudicare Gabriele Maffeo dalle apparenze sarebbe troppo semplice: “tossicodipendente noto alle forze dell’ordine. Era finito in un brutto giro e l’hanno ammazzato per un regolamento di conti”. Sono più o meno queste le frasi lette in questi giorni sui social, sui giornali o sentite ai telegiornali. Ma a fare il giro dello Stivale dovrebbe essere ciò che c’è dietro alla dipendenza di un ragazzo come tanti, ma incapace di trovare il proprio posto nel mondo.
Un uomo la cui unica vera amica, nei momenti di maggior sconforto, era l’eroina, amica solo in apparenza, ma che in realtà nascondeva un volto oscuro, quello della morte, sempre dietro l’angolo, sempre pronta a piombarti addosso quando le forze e la speranza di risalire lasciano spazio alla disperazione, allo sconforto, al desiderio che tutto finisca. Per non soffrire più, per non far soffrire più.
«Gabriele era un ragazzo buono, non avrebbe mai fatto male a nessuno. Aveva solo tanto bisogno di sentirsi amato, ascoltato, compreso. Sono arrivato anche a odiarlo, quando vedevo i miei genitori piangere disperati. Ma poi, ogni volta che lo guardavo negli occhi, era come se vedessi il viso di un bambino impaurito, che implorava aiuto e l’odio si tramutava in tristezza e pianto».
A parlare è Martino Maffeo, fratello minore di Gabriele, un ragazzo di 27 anni docente dell’istituto superiore Quintino Sella di Biella e capitano del Teens Basket Biella, una delle due maggiori squadre di pallacanestro biellesi.
«Siamo devastati», prosegue il giovane «perché anche se eravamo pronti da anni al fatto che prima o poi sarebbe potuto accadere il peggio, il modo in cui Gabriele è morto, l’essere stato buttato in un cassonetto dell’immondizia come un rifiuto, fa male, tanto male».
Il racconto di Martino inizia dalla fine, dagli ultimi giorni vissuti dal fratello: «Gabriele era tornato a casa mercoledì, dopo essere uscito da una comunità e in attesa di essere accolto da un’altra struttura. Venerdì è uscito di casa e non è più rientrato. Mia madre dice che, forse, era tornato a casa solo per salutarci un’ultima volta. Perché tante volte negli ultimi tempi mi aveva detto di essere stanco, di non avere più la forza di andare avanti, di provare a risalire dal baratro nel quale tante volte era scivolato».
Il racconto di Martino poi va indietro nel tempo, alla ricerca dell’origine di un’avventura che è iniziata come un modo per colmare il vuoto che il fratello sentiva dentro di sé, ma che poi si è trasformata in una dipendenza.
«Da ragazzino Gabriele si ammalò gravemente e gli venne diagnosticata la sindrome di Guillain-Barré, una malattia auto immune che colpisce l’apparato muscolare, respiratorio e cardiaco, che provoca debolezza e può causare insufficienza respiratoria, paralisi e nel 5% dei casi la morte. Gabriele riuscì a guarire, ma durante la malattia la sua vita era stata molto dura, era ingrassato molto, aveva un aspetto che non lo faceva sentire a proprio agio, una situazione che gli ha provocato un malessere profondo».
Finché a un certo punto nella sua testa c’è stato un cortocircuito.
«Ha iniziato a fumare eroina a 16-17 anni» racconta con gli occhi lucidi Martino «e da quel punto la sua vita è stata sempre più in salita, stravolta, come anche quella di mio padre Sergio mia madre Daniela e mia sorella Sonia. Per anni eravamo stati felici, pur nelle difficoltà, avevamo un nostro equilibrio, avevamo legami solidi e ci volevamo bene. Poi la droga ha spazzato via ogni certezza, costringendoci a imparare una nuova modalità esistenziale, una vita fatta di sacrifici enormi, sia dal punto di vista morale sia economico. All’epoca io ero poco più che un bambino e, come il resto della famiglia, mi sono trovato a dover gestire una situazione complessa, nella quale sono dovuto crescere più in fretta di quanto avrei dovuto e voluto. Trovare nuovi equilibri è stato difficile, per certi versi quasi impossibile».
Per la famiglia Maffeo è iniziata una battaglia, un cammino nel quale tante volte è capitato di chiedersi di chi fosse la colpa, in cosa avessero sbagliato, cosa potessero fare per aiutare Gabriele a ritrovare la luce.
«Credo che la colpa per la vita che ha fatto mio fratello non sia di nessuno» spiega Martino «semplicemente è stato un concatenarsi di situazioni negative. Abbiamo sempre cercato di dare a Gabriele tutto l’amore e l’affetto possibili, ma nonostante questo il suo senso di solitudine e di inadeguatezza non si è mai placato. Così ha cercato amore e affetto nelle persone sbagliate, quelle che spesso quando aveva bisogno lo lasciavano solo. È entrato in una modalità dalla quale è complicato uscire. Ha iniziato a frequentare brutti ambienti e a sentirsi così sempre meno a suo agio nel mondo “normale”».
Due anni fa Gabriele sembrava finalmente aver trovato pace. Aveva una compagna, una relazione dalla quale è nato un figlio, che la coppia poi non ha potuto tenere, dato in affido a una famiglia dopo che papà e mamma Maffeo hanno cercato in ogni modo di ottenere l’affidamento.
«La nascita del bambino è stato un momento nel quale abbiamo sperato davvero che Gabriele potesse uscire dal tunnel» rivela il fratello minore.
«Ha provato in ogni modo ad allontanarsi dalla droga ed è stato “pulito” per più di un anno. Ma quando è tornato a casa la tentazione è stata troppo forte ed è ripiombato nel tunnel. Alla fine di questa storia siamo anche rammaricati, per certi versi un po’ arrabbiati anche con le istituzioni, con chi troppo facilmente liquida una persona fragile senza provare a comprendere le ragioni del suo disagio».
La solitudine è stato uno dei sentimenti che più hanno caratterizzato la vita della famiglia Maffeo negli ultimi 15 anni.
«Quella di mio fratello è diventata anche nostra. È difficile avere voglia di condividere momenti spensierati, complicato anche solo invitare amici a casa, con la paura che da un momento all’altro tornasse a casa Gabriele, magari dopo aver assunto droga o in crisi di astinenza».
“Quel che non uccide fortifica” dice un proverbio. Ma è difficile capire se una situazione così complicata possa rendere più debole o più forte la famiglia che l’ha vissuta sulla propria pelle.
«Da un lato ti rende più forte, più capace di resistere alle difficoltà e agli eventi negativi. Dall’altra ti rende incapace di gioire fino in fondo per le cose belle. Negli anni le sofferenze hanno creato attorno a noi un muro impenetrabile, che mi ha fatto perdere l’innocenza e l’ingenuità tipici di ogni bambino e ragazzo e che molti riescono a conservare anche da adulti».
L’ancora di salvezza per Martino è stata la pallacanestro: «Fare sport aiuta ad affrontare con più energia la vita» dice il capitano del Teens Biella «permette ai ragazzi di crescere e vivere in ambienti sani, più lontano dai problemi e dalle cattive compagnie. La pallacanestro è stata il mio rifugio, la parte della mia vita che mi ha permesso di mettere da parte dolore e sofferenza, regalandomi amicizie e gioie incredibili, che mi hanno dato la forza di andare avanti».
Esperienze come quelle vissute dalla famiglia Maffeo lasciano un segno profondo nel cuore, nella mente, nella vita, ma possono servire anche da esempio, possono dare la forza ad altre persone di affrontare i problemi sapendo di non essere soli.
«A una mamma, un papà, un fratello o una sorella di un tossicodipendente direi di urlare il meno possibile, di abbracciare forte il proprio caro, ascoltarlo e cercare di comprendere il suo dolore, la complessità del percorso che l’ha portato fino al punto di non ritorno. Non fermatevi alla superficie, se vedete qualcosa di apparentemente insensato scavate a fondo, cercate di capire senza fretta di giudicare. Chi soffre e sta male a causa della droga non ha bisogno di qualcuno che lo giudichi, che lo cataloghi, ma spesso solo che lo ascolti».

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