«Quando il bimbo nacque nella vecchia stazione»: nel 1958 in città arrivò la mostra internazionale del presepio davanti ai giardini. 10mila visitatori in 5 giorni

Nell’edificio dismesso della Biella-Santhià

La storia è una cosa fragile: se si cancellano i piccoli o rilevanti segni, la memoria di un luogo silenziosamente scompare. A volte, prima di morire, la memoria manda una luce speciale, come una falce di luna che fa da culla tra il tempo passato e il progetto di un futuro possibile. Così accadde nel 1958, davanti ai giardini Zumaglini, lungo il ciglio opposto di via Lamarmora, dove sorgeva la Biella-Santhià.

Quell’anno era stata smantellata la rete ferroviaria locale, tutta elettrificata, che si diramava per le valli. Fu chiusa anche la secolare stazione Biella-Santhià, per essere trasferita e unificata con la Biella-Novara in piazza S. Paolo, liberando la città dalla “cintura di ferro”, rotaie e barriere di passaggi a livello.

Rimaneva, su quel lato di via Lamarmora, l’edificio della dismessa stazione, con biglietteria e sala viaggiatori ormai vuote. La costruzione non era d’ostacolo a nulla, anzi conteneva la memoria del tempo. Era un simbolo. Grazie alla ferrovia, erano sorti il giardino pubblico, i palazzi attorno e, nei pressi, le tranvie e le industrie. Lì vicino, in un secolo, erano successe cose speciali: le mongolfiere “Verdi” e “Pegaso” avevano bucato il cielo (1908), i bolidi di Trossi e Nuvolari erano sfrecciati (1934 e 1935), la neonata “Vespa” aveva emesso il primo ronzio (1945).

La vigilia di Natale del 1958 l’edificio della stazione abbandonata si illuminò per accogliere la “Mostra Internazionale del Presepio Artistico”, voluta dal genio del biellese Pino Alvigini. Diecimila visitatori nei primi cinque giorni sfilarono a salutare il Bambino Gesù che, trascolorando nei presepi provenienti da tutto il mondo, irraggiava speranza.

In quei giorni l’antica stazione custodiva memoria del luogo e insieme ospitava arte e bellezza. Una futuribile destinazione dell’edificio era appena nata, ma fu subito affondata. Finita la Mostra, spente le luci, si spense anche il coinvolgimento emotivo e culturale. In particolare, una suggestiva espressione, “nuovo centro civico”, poi corretta in “nuovo centro direzionale”, iniziò a circolare, accendendo nei cittadini una vaga e febbrile “attesa del futuro” di quella zona. Il recupero del vecchio edificio fu considerata operazione senza senso. A che servono l’arte e la memoria?

Infine, nel vuoto di idee e di sentimenti, tutto si fermò. Giorno dopo giorno, nell’edificio scivolarono le ombre della città, mentre un grigio piazzale gli faceva da deserto tutto attorno. Nel pomeriggio, coppie di giovani innamorati si davano convegno per i primi baci, ma verso sera si dileguavano all’apparire di sinistre figure. Tornato il silenzio, trovavano rifugio larve pietose di uomini ebbri o senza dimora. Al mattino, la vecchia stazione tornava vuota: dai vetri scheggiati entravano solo i rumori di via Lamarmora. Attorno all’edificio si accesero, all’inizio degli anni Sessanta, i bagliori del circo e le sirene del luna park nelle fiere di maggio e d’agosto, con le giostre e l’autoscontro, i tiri a segno e le urla sull’ottovolante, le corse e le risa dei bambini. Trascorsa la festa, la stazione tornava ad ospitare le ombre del pomeriggio, della sera e della notte.

All’inizio del 1962, le macchine demolitrici entrarono nel piazzale e s’accostarono a quello che rimaneva di mille e una storia. Una possente boccia, pendente da una gru inclinata, infierì contro la facciata. Mentre una nuvola di polvere si sollevava fino ai giardini, la cinepresa riprendeva i volti sorridenti degli spettatori. Quale allegria?

I demolitori dimenticarono il pavimento a mosaico della sala d’attesa, che per qualche tempo rimase come un variopinto arazzo a cielo aperto: l’ultima luce della vecchia stazione.

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