«La Madonna nera come le donne africane, forti, concrete, capaci di custodire il sogno di Dio»

L’intervista

Oropa, agosto 2025. La luce filtra dalle vetrate della Basilica Superiore e cade sul volto assorto di mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu in Sud Sudan. È in piedi davanti alla Madonna Nera con il suo lungo manto della Misericordia realizzato con storie , affanni e gratitudine di migliaia di fedeli. Lo sguardo del Vescovo è rivolto in alto, le mani giunte. Ai suoi piedi, idealmente, porta con sé il dolore e la speranza di un popolo segnato dalla guerra e dalle alluvioni, e la gioia di chi sa danzare la vita anche nel fango dei campi profughi.

La sua visita al Santuario, accolto dal vescovo di Biella Roberto Farinella e dal rettore don Michele Berchi, è molto più che un pellegrinaggio personale: è il segno concreto di un legame che unisce Biella e l’Africa, Oropa e Bentiu, Maria e la Chiesa dei poveri.

Ieri sera, a Cossato, il vescovo, padre Carlassare, comboniano, è stato protagonista di un incontro promosso dal Centro Missionario diocesano: davanti a immagini e testimonianze provenienti dal Sud Sudan ha raccontato la vita di una comunità che “vive sull’orlo dell’acqua”.

Bentiu, la diocesi che guida, è una città rinata dalle macerie della guerra civile del 2013-2018. Oggi conta circa 70 mila abitanti, ma accanto sorge un immenso campo profughi con altri 140 mila sfollati. Ogni stagione delle piogge il Nilo esonda, sommergendo i villaggi: le strade diventano fiumi, le case di fango si sciolgono, intere comunità sopravvivono tra palafitte e barche. Le immagini mostrano bambini che giocano scalzi nel fango, donne che trasportano taniche gialle d’acqua, uomini che spingono canoe improvvisate tra le capanne allagate. Ma ci sono anche i sorrisi, le danze liturgiche, le scuole improvvisate sotto gli alberi, i mercati affollati: la gioia di un popolo che non si arrende.

Padre, lei viene dal Sud Sudan, un Paese martoriato da anni di conflitti. Qual è il messaggio che ha portato a Oropa e poi a Cossato?

Più che un messaggio mio personale, è stato un segno di gratitudine e di fraternità per l’invito ricevuto dalla Chiesa di Biella. Ho voluto testimoniare l’esperienza di una giovane Chiesa in Africa, in comunione con il cammino della vostra comunità. In questo anno ci sono state iniziative del Centro Missionario a sostegno della mia diocesi, e portare a Oropa il volto di questa realtà significava dire che siamo un’unica famiglia, custodita da Maria. La Madonna accompagna il nostro cammino di fede in Africa così come ha accompagnato il cammino della Chiesa in Europa per secoli.

Nell’omelia a Oropa ha parlato di dialogo e riconciliazione. Da dove si parte per costruire davvero la pace? Lei stesso è stato vittima di un attentato...

Il nuovo nome dell’evangelizzazione in Africa è proprio la riconciliazione. Non basta annunciare il Vangelo: bisogna viverlo. E questo significa abbattere le barriere che dividono, siano esse culturali, sociali o di genere. Ho scelto come motto episcopale un versetto della Lettera ai Galati: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti siamo uno in Cristo». Solo se ci riscopriamo figli di Dio, e quindi fratelli, la pace diventa possibile.

Per quanto riguarda l’attentato che ho subito, preferisco lasciarlo alle spalle. Per me resta il segno della disumanità che nasce quando non si riconosce nell’altro un fratello. In Sud Sudan la violenza colpisce soprattutto i civili, innocenti, spesso donne e bambini. Io mi sento parte di un popolo ferito, ma anche testimone che dalle ferite ci si può rialzare. È una grazia di Dio che io sia vivo dopo aver ricevuto quattro proiettili alle gambe. Ho sperimentato che si può perdonare e lavorare ancora per una comunità più giusta e pacificata.

Lei ha conosciuto Oropa da ragazzo. Che cosa ha significato tornare al Santuario come vescovo missionario?

Sono arrivato a Oropa per la prima volta venticinque anni fa, quando ero novizio. Tornarci oggi come vescovo missionario è stato un dono. Sono convinto che la Madonna mi abbia protetto in tanti momenti difficili, anche dopo l’attentato: i proiettili che mi furono tolti li ho lasciati come ex voto in un santuario mariano. Oropa, con l’immagine della Madonna Nera, richiama a me la donna africana: forte, concreta, capace di custodire il sogno di Dio. Per questo ho consacrato la mia diocesi al Cuore Immacolato di Maria: perché anche il Sud Sudan possa trovare pace e riconciliazione.

Tra poche settimane la Chiesa vivrà la canonizzazione di Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis. Che messaggio arriva ai giovani di oggi da queste figure?

Sono due testimoni molto importanti. Pier Giorgio Frassati mi è caro perché, da giovane nell’Azione Cattolica, lo abbiamo avuto come guida nel tempo della sua beatificazione. Mi ha accompagnato proprio negli anni in cui maturavo la vocazione sacerdotale e missionaria. Carlo Acutis è un santo ancora più vicino alle nuove generazioni: ho celebrato accanto al suo corpo nella chiesa della Spogliazione ad Assisi. La sua vita insegna ad usare anche i nuovi mezzi di comunicazione per il bene, per amore e per il Signore. Entrambi ci ricordano che la fede non è astratta, ma è testimonianza concreta che rende la società più giusta e fraterna.

In un’Europa stanca e affaticata, le immagini di migliaia di ragazzi radunati attorno al Papa a Roma per il Giubileo dei giovani sono sembrate un segno di speranza. Che cosa la giovane Chiesa africana può insegnare a noi?

In Africa la Chiesa è giovanissima: in Sud Sudan più della metà della popolazione ha meno di 21 anni. La pastorale giovanile non è ancora strutturata, ma i ragazzi trovano speranza nella preghiera, nel canto, nella danza liturgica. È un popolo che crede nel sogno di un futuro diverso. Ma le sfide sono enormi: solo il 20% dei bambini accede alla scuola primaria, solo il 5% arriva alle superiori, e per le ragazze è ancora più difficile. Spesso i giovani sono manipolati dagli adulti, reclutati nelle milizie invece che accompagnati a costruire il Paese. Per questo occorre offrire loro formazione, opportunità, fiducia.

Lei ha sentito la sua vocazione molto presto. Come possono i giovani riconoscere la chiamata?

Io ho sentito il desiderio di diventare prete e missionario già alle elementari e alle medie, ma è stato durante le superiori che ho preso le prime decisioni concrete, entrando nei Comboniani. Hanno contato molto gli esempi che ho incontrato: sacerdoti e missionari che mi hanno fatto intuire la bellezza di una vita spesa per gli altri. Credo che i giovani cerchino modelli, e ne abbiano bisogno soprattutto oggi: persone che costruiscono pace, che testimoniano valori autentici. La Parola di Dio non deve rimanere sulle nuvole, ma prendere carne nella nostra società. Solo così la vita diventa piena e vera.

Tra le montagne del Biellese e le pianure alluvionate del Sud Sudan, il filo che unisce mons. Carlassare alla sua gente e alla Madonna di Oropa è fatto di resilienza, fede e fraternità. «Il Vangelo è questo – dice –: entrare nelle ferite del mondo e trasformarle in vita nuova. Non ci sono scorciatoie. Ma c’è una certezza: Dio è fedele, e non abbandona mai».

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