Judo in lutto: è morto il maestro di vita Salvatore Azzarello

Nel suo Dojo O Nami si crescono uomini e donne insegnando passione, dedizione, spirito

»Salvatore, Salvo, un personaggio eclettico e vulcanico, in primis maestro di Judo e a seguire cultore di mille arti che chiamare hobby sarebbe riduttivo. Dal lavorare il legno (partendo dalle pipe per finire con le canoe) alla ceramica, passando per infiniti altri, tutti legati da quel filo rosso (la cura, la pazienza, la costanza, la meditazione, la trasformazione del pensiero in gesto e viceversa) che è la filosofia di vita dei seri cultori delle arti marziali». Così scriveva un suo amico qualche mese fa quando Salvatore Azzarello era andato in pensione, aggiungendo: «Per un tipo come lui, sostenere che sia andato in pensione suona ossimorico. E’ una formalità burocratica del tutto ininfluente per le radici del suo spirito».

E infatti Salvo aveva continuato a fare tante cose e a curare in maniera maniacale quella sua grande passione, anzi una missione, che era il Judo: per lui, che era cintura nera 6° dan, e per i suoi tanti allievi. Lo sanno benissimo i suoi familiari, che lo hanno voluto ribadire anche in questi giorni di dolore: «Lui ha sempre aiutato veramente tutti e ha messo il judo al primo posto della sua vita. Ha sempre avuto un rapporto speciale con i suoi ragazzi e non li ha lasciati soli nemmeno in questi due mesi di grande sofferenza fisica e mentale: durante questo periodo durissimo ha voluto anche tenere gli esami on line di alcuni di loro... un vero judoka sino alla fine». Una vita che non è stata solo Judo, ma che è stata votata agli altri: negli ultimi venti anni circa aveva lavorato con la cooperativa Maria Cecilia come operatore nelle ore notturne nella struttura comunale di piazza del Monte a Biella. Per scriverlo in poche parole e per farlo capire a tutti: accoglieva le persone che usufruivano del dormitorio fornendogli il necessario e, soprattutto, dando quel po’ di calore umano che spesso viene a mancare in questa epoca storica in cui viviamo.

Salvatore Azzarello se n’è andato nella notte tra lunedì 8 e martedì 9 gennaio a 62 anni per un male subdolo che se l’è portato via in soli due mesi. Lascia il papà Giuseppe, la mamma Teresa, le sorelle Rosy con Enrico, Stella con Fabrizio, l’affezionata amica Martina, tanti nipoti, zii, cugini e i collaboratori e gli atleti del Dojo O Nami. Il Santo Rosario è previsto mercoledì 10 gennaio alle ore 19 nella Chiesa Parrocchiale di Vergnasco, mentre il funerale si terrà giovedì 11 alle ore 15 sempre a Vergnasco.

Il suo nome rimarrà indissolubilmente legato al judo biellese: nella sua palestra di vita e di judo, il Dojo O Nami, sono passati in tanti e, molto probabilmente, tanti passeranno in futuro, nel suo ricordo e per continuare a perseguire la sua filosofia: passione, dedizione, spirito, i punti cardine che lui stesso ci aveva dettato in una intervista del mese di marzo raccontandoci il passaggio di grado al 6° Dan. Proprio per questo motivo la riproponiamo qui di seguito, curata dal nostro giornalista Stefano Vicario, che racconta l’atleta, l’istruttore, il maestro, l’uomo: “un brav’uomo” come in tanti hanno voluto scrivere ovunque sui social in queste ore.

Credo non smetterò mai di insegnare il judo e i suoi valori: non esiste un’età per smettere di farlo, quando il corpo non risponderà più, ci penseranno le parole e le esperienze a condividere le mie conoscenze

Salvatore, come è nata la passione per il judo? Fino ai quindici anni ho fatto il pattinatore su rotelle, ero anche abbastanza capace in realtà, ma ricordo che nel mese di maggio del 1975 rimasi folgorato vedendo un allenamento di judo. A quel punto decisi di iscrivermi a settembre, ma quando lo dissi a mio padre non ottenni la risposta positiva che speravo: sapevo di chiedere un sacrificio economico notevole per le nostre possibilità di allora. Così trovai un lavoretto per contribuire alla spesa e da quel momento cominciò la mia avventura nel judo. Ho iniziato presso il Judo Club Biella nel 1975 e per quanto Biella fosse una media cittadina, il Dojo aveva circa 400 iscritti. Arrivarono i primi risultati regionali e nazionali, ma la svolta arrivò nel 1980 a Roma quando diventai cintura nera 1°DAN. Ciò mi permise di entrare alla SMEF (Scuola Militare di Educazione Fisica), che aveva una caserma simile ad un parco e si praticava all’incirca cinque o sei ore tutti i giorni. Sono sempre stato molto sportivo, da ragazzo ero un atleta molto rigoroso: spesso i sabati facevo il tragitto da Biella a Oropa di corsa, una volta al mattino e una al pomeriggio. Normalmente praticavo il Dojo 4 volte a settimana e credo che muoversi sia fondamentale per chiunque, in più se lo si fa divertendosi lo trovo ancora più efficace.

Come è iniziata la “carriera” da Maestro? Quando conobbi Cesare Barioli, rimasi folgorato dalla sua persona, per me è sempre stato un pioniere del judo, un essere illuminato. Fu al Busen Milano di Via Arese dove capii che non c’era solo la ricerca dell’eleganza del gesto. Scoprii invece che quell’uomo parlava di cose che già sentivo dentro ma non sapevo come farle venir fuori, si riferiva all’educazione, e così ho deciso di seguirlo, fino alla sua dipartita.La mia prima esperienza tecnica è stata al Nippon Biella dove per altro mi allenavo già da anni, in un primo periodo avevo un corso con due bambini. Nel 1996 è nato l’O Nami Dojo Biella, che non aveva ancora una casa tutta sua, perché sfruttavamo il tatami di un corso di karate dal Maestro Franco Pasquadibisceglie in via Rocchetta in Biella. A partire dal 2009, grazie all’idea di Giuseppe Chiappella, ci siamo trasferiti nella sede in cui siamo tuttora. Credo non smetterò mai: non esiste un’età per smettere di farlo, quando il corpo non risponderà più, ci penseranno le parole e le esperienze a condividere le mie conoscenze.

Facciamo un passo indietro nella storia del judo e raccontiamo qualcosa anche per chi è lontano da questo mondo. Ci sono delle tradizioni che ancora oggi sono presenti nei Dojo? Assolutamente sì, a cominciare dalla struttura del Dojo stesso. La parete più lontana dall’ingresso, si chiama Kamiza ed è la parte che ricorda gli antenati, i maestri del passato e tutti i più esperti judoisti. Questo perché ai tempi dei Samurai c’era una tradizione chiamata Dojoyaburi, che consisteva nell’assalto da parte di un gruppo al Dojo: nel lato più vicino all’ingresso c’erano i meno esperti e i neofiti, mentre la Kamiza doveva essere protetta dai più forti. Anche perché insieme alle immagini del fondatore o degli altri esperti, si tengono ancora oggi i densho, libri contenenti la conoscenza del Dojo, che non dovevano cadere in mano ai rivali. Altro gesto importante è il saluto (rei) dove si manifesta con un piccolo inchino l’atteggiamento di “Rei no kokoro”, ovvero lo spirito del rispetto verso tutto e tutti.

Un amore immenso per la disciplina, cosa vuol dire fare judo nel Dojo O Nami? O Nami vuol dire “grande onda”, il Dojo vuole essere ciò che la parola stessa indica: luogo dove vai a migliorare te stesso, inteso sia dal punto di vista fisico, sia sociale e comportamentale attraverso “Corpo, Mente e Cuore”. Jigoro Kano, il fondatore del judo, intendeva questa disciplina come un sistema educativo. Così voglio trasmettere ai bambini, attraverso il Judo, le regole fondamentali dell’educazione, in modo tale che possano essere utili alla società in cui vivranno in un futuro e non delle macchine agonistiche orientate esclusivamente verso un risultato. Non sono contrario all’agonismo, io stesso ho gareggiato quasi venti anni, ma troppo spesso viene presa in considerazione solo la medaglia, che a certi livelli vale soldi alle associazioni. Invece l’aspetto educativo sta dietro il podio perché il risultato e lo sforzo sono nel percorso.

La disciplina del judo è un sistema educativo. Quali sono le regole e le pratiche che i bambini imparano al Dojo O Nami? Sostengo da sempre che il Dojo deve diventare una casa per chiunque lo frequenti. Da questa convinzione partono diverse iniziative, che vogliono creare un gruppo coeso ed unito tra tutti i ragazzi. Chi entra dalla porta è accolto dagli stessi bambini e ragazzi, che spiegano come ci si comporta: quando togliere le scarpe, dove cambiarsi e anche come allacciare la cintura. Credo che sia molto importante, perché permette a tutti di responsabilizzarsi, dal più piccolo al più grande. Inoltre da noi è buona usanza fare le pulizie sul tatami dove i ragazzi a rotazione puliscono la materassina prima della lezione, Ogni tanto, ci si trova di sabato o di domenica per attività di laboratorio o culturale concludendo con un pranzo di condivisione fra tutti genitori compresi dove ognuno porta qualcosa. Il fondatore Jigoro Kano era convinto che col judo praticato come sistema educativo così come era nato, si potesse creare una società di uomini e donne più forti, consapevoli e indipendenti al servizio di una società migliore. Noi nel dojo ci proviamo, anche se probabilmente non saremo noi a vedere i risultati. Come cita il Mahabharata “L’uomo ha diritto all’azione e non necessariamente ai suoi frutti”.

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