Parole - Lacrima, pensiero, immagine: Vialli convoca le emozioni. Campione, addio

Piangere Gianluca Vialli, oggi che è morto a 58 anni, è un esercizio che allena i brividi e convoca le emozioni, quelle intense. E non conta il tifo o l’appartenenza. È stato qualcuno e di qualcuno in una carriera folgorante, è stato tutti e di tutti in una vita sulla cresta dell’onda. Sempre.
O una lacrima ha rigato il viso o un pensiero ha stretto l’anima o un’immagine ha picchiato nel cuore. Scegliete. Perché Vialli è stato una sensazione forte per chi ha seguito con passione gli anni Ottanta e Novanta del calcio e si addormentava con la speranza di un suo gol. Perché Vialli è stato un uomo che è andato al di là del calciatore. Perché Vialli è stato un malato che ha vinto comunque, di quelli che il male almeno a disagio lo fanno sentire.
Attaccante superbo, con l’iperbole giovane, dirompente, disincantata sampdoriana, e con quella più matura, potente, condottiera juventina. E senza il primo Milan berlusconiano, che lo avrebbe visto come il Mike Bongiorno di Canale 5, cui disse no perché aveva da fare la storia a Genova dal secondo papà Mantovani. Prima e dopo, la “nascita” cremonese e la conclusione londinese con il Chelsea, anche da allenatore poi. Le sue figurine da calciatore, il campione delle rovesciate, sono il cerchio di quel che è stato Vialli, eroe designato di un’Italia 90 mondiale dalla quale, uscendone malconcio, aveva tratto, credo definitivamente, quello spirito battagliero che poi ha contraddistinto tutto il suo essere. Fino a oggi, fino a tre settimane fa quando con un nota ai media aveva detto di sospendere i suoi impegni professionali per «utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia». Quella fase non l’ha superata, purtroppo, come avevano capito un po’ tutti e come per primo sapeva lui. Ma non aveva mentito, aveva solo mostrato coraggio, quello stesso che aveva evocato in un discorso da brividi da capo delegazione della nazionale prima della finale degli Europei. Lì, in quel ruolo d'investitura da icona del nostro calcio, si era in qualche modo ripreso quello che l’azzurro non gli aveva dato da calciatore per un motivo o l’altro. Non potendo fare gol, al termine di quella finale aveva regalato a tutti una lezione - una sorta di trattato in presenza sull’amicizia (https://www.ilbiellese.it/attualita/parole-un-abbraccio-per-il-futuro/) - non di calcio ma di vita intensa: l’abbraccio di lacrime, ripetuto già qualche giorno prima, con l’allenatore, l’amico di sempre e gemello doriano del gol Roberto Mancini.
Prototipo del calciatore moderno, Vialli, che a innamorarsi di calcio è partito da un oratorio di periferia, ha reinterpretato il mestiere di attaccante, rendendolo ruolo completo dentro l’area di rigore e fuori l’area di rigore: bomber a tutto tondo. Con gli allenatori Boskov e Lippi soprattutto, superando con amarezza, certo, anche l’ostinata riluttanza al suo essere del Sacchi cittì. E completa aveva reso, lasciandola tale nel ricordo, la sua figura di uomo, giovane e poi maturo: sempre divo, ma con attenzione e con sobrietà. Perché Vialli era uno che aveva rispetto. Nelle parole garbate e nel modo di essere normale, vincitore o vinto. Fino alla fine. «Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori» ha scritto oggi la famiglia che sa, eccome, che il cuore è non solo il loro, ma quello di tutti. Per questo oggi piangere la fine di Gianluca Vialli vivo, attesa purtroppo ma scongiurata, è un esercizio decisamente difficile. Da brividi e emozioni.

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